di Nino Grasso
Da oltre venti mesi, il Dipartimento Ambiente della Regione Basilicata, guidato dall’assessore Cosimo Latronico (Fdi) e dal direttore generale Roberto Tricomi, con un responsabile unico del procedimento (Rup) che risponde al nome di Carlo Gilio, è in possesso dei risultati delle analisi compiute da Arpab nel mese di giugno 2022 all’interno del sito ex Liquichimica nel Comune di Tito. A comunicarli è stato l’ing. Gaetano Santarsia, nella sua veste di dirigente dell’Area Suolo, Rifiuti e Siti Contaminati dell’Agenzia regionale di protezione ambientale.
La nota a sua firma – di cui la “Nuova” è entrata in possesso e che pubblichiamo integralmente in pagina, nella speranza di suscitare l’interesse non solo dei lettori ma anche dei competenti organi di controllo, probabilmente all’oscuro di tutto – è stata inviata il 22 agosto di due anni fa anche all’Ufficio Ambiente della Provincia di Potenza e alla direzione generale dell’Azienda sanitaria del capoluogo lucano (Asp).
Da quanto ne sappiamo, da allora nessuno ha mosso un dito.
Anzi, secondo quanto denunciato dal sindaco di Tito, Graziano Scavone, che ancora di recente ha sollecitato una Valutazione di impatto sanitario, parrebbe che la Regione Basilicata, alla data del 31 dicembre 2022, abbia rinunciato ad un finanziamento di 10 milioni di euro destinato alla bonifica dell’area “fosfogessi” della ex Liquichimica di Tito.
La qual cosa – se accertata – sarebbe di una gravità inaudita. Di cui chiedere conto, in prima persona, al presidente uscente della Regione Basilicata, Vito Bardi.
Le cui responsabilità politiche sono duplici.
Primo, perché nulla è stato fatto negli ultimi cinque anni (come, per la verità, anche nel lustro precedente) per giungere alla bonifica del sito di interesse nazionale di Tito. Il cui inquinamento è fonte di enormi preoccupazioni per la salute delle migliaia di cittadini che vivono in quell’area.
Secondo, perché pur in presenza di analisi che, per la loro portata, fanno di Tito un’area forse addirittura più pericolosa della «terra dei fuochi» della vicina Campania, diventato un caso nazionale, nessuna seria azione di prevenzione è stata messa in cantiere. A partire da una «indagine epidemiologica» per verificare lo stato di salute su un campione rappresentativo di cittadini che vivono nei pressi dell’area industriale interessata.
Anzi, l’unica indagine epidemiologica avviata nella scorsa legislatura in Val D’Agri nell’ambito del progetto Epibas, coordinato dalla Fondazione ambiente e ricerca (Farbas), sugli effetti inquinanti del petrolio, è stata colpevolmente sospesa dalla giunta Bardi. Perché – si disse – bisognava ragionare più in grande. Allargando cioè l’indagine a tutta la regione e non sole a poche, specifiche aree a rischio.
Risultato: non se ne è fatto più nulla.
Niente progetto Epibas, sospeso dopo aver portato a termine un migliaio di screening sanitari su altrettanti cittadini esposti, più di altri, agli inquinamenti da petrolio. E niente progetto “Lucas” (Lucani Ambiente e Salute) di cui nel 2021 si riempirono la bocca in una conferenza stampa congiunta il generale Bardi e gli allora assessori all’Ambiente, Gianni Rosa, e alla Salute, Rocco Leone, annunciando lo stanziamento di 25 milioni di euro messi a disposizione dalle stesse compagnie petrolifere.
Cinque milioni l’anno per cinque anni. Soldi che dovevano servire ad estendere l’indagine epidemiologica avviata da Farbas nella sola Val D’Agri a tutta la Basilicata. Salvo invece assistere al blocco indiscriminato.
Tanto delle analisi sanitarie effettuate sino a quel momento a Viggiano e Grumento Nova. Quanto delle indagini promesse ai cittadini di tutti gli altri comuni lucani.
Il che, alla luce della nota Arpab pubblicata in questa pagina, ci fa sospettare che la mancata attuazione del progetto “Lucas” non sia stata figlia del caso.
Ma risponda ad una voluta sottovalutazione delle emergenze sanitarie ed ambientali della Basilicata. Anche qui, per una ragione ben precisa. Quella di prorogare le concessioni petrolifere, come è avvenuto in questi giorni a Tempa Rossa, senza avere sul collo il fiato dei cittadini. Ma soprattutto senza preoccuparsi più di tanto delle controindicazioni che queste attività potrebbero avere per la salvaguardia dell’ambiente e la tutela della salute umana.
Torneremo a parlarne nei prossimi giorni. Per il momento, riteniamo doveroso segnalare ai lettori – e a chi di competenza– la forte criticità dei dati contenuti nella nota Arpab pubblicata in pagina.
Il “tricloroetilene” appartiene al cosiddetto gruppo 1 delle sostanze sicuramente cancerogene. Per via della sua tossicità non è più impiegato in tutto il mondo dagli anni ‘70 del secolo scorso. Non meno pericoloso è il “clorulo di vinile” che può provocare i tumori del fegato. Si notino i valori rilevati da Arpab e quelli «soglia» stabiliti dalle norme vigenti. Siamo a livelli stratosferici. Non dieci o cento volte in più. Ma quasi 56 mila volte in più per il “tricloroetilene” e quasi mille volte in più per il “clorulo di vinile”. Ovviamente ci riferiamo ai dati più alti rilevati dall’Agenzia di protezione ambientale: 83.808 contro 1,5 nel primo caso; 492 contro 0,5 nel secondo.
Ci fermiamo qui. Almeno per ora. Non senza aver prima rivolto un appello a chi, per dovere d’ufficio, è chiamato ad intervenire. Fate qualcosa. Ma soprattutto fate presto, prima che sia troppo tardi!
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